giovedì 1 luglio 2021

Rottura della reciprocità intergenerazionale

Ogni fase della vita, dalla nascita alla morte (infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia), è connotata da diversi ruoli, responsabilità, diritti e doveri, e questi cambiano insieme alla prima, tanto nel percorso di formazione e poi lavorativo che in quella che viene definita come sfera privata, ovvero la famiglia. Il lavoro di cura mostra come le cartografie relazionali di quest’ultima si allarghino ben oltre quella nucleare (alla quale in particolare nel Nord del mondo viene fatta coincidere la sfera privata) e che queste siano basate tendenzialmente sulla reciprocità intergenerazionale. Come sottolineano Deborah Bryceson e Ulla Vuorela, la famiglia, proprio come la nazione o l’etnicità, può essere considerata una comunità immaginata, alla quale si può decidere di appartenere o meno (o gli altri possono deciderlo per noi): 

«si può essere nati in una famiglia e in una nazione, ma il senso di appartenenza può essere una questione di scelta e negoziazione. Si può cambiare la propria nazionalità e cittadinanza così come si può modificare la propria famiglia e la propria appartenenza nella pratica quotidiana. L'inclusione di membri dispersi all'interno della famiglia è confermata e rinnovata attraverso vari scambi e punti di contatto» (Bryceston and Vuorela, 2002, pag.10).



In uno dei testi che più di tutti hanno rivoluzionato gli studi dei rapporti sociali all’interno della famiglia, Negotiating Family Responsibilities (1993), Janet Finch e Jennifer Mason affermano che «le responsabilità tra familiari non sono il diretto prodotto di regole obbligatorie. Sono, noi crediamo, il prodotto della negoziazione » (Finch & Mason, 1993, p.59). Le autrici «nel trattare le "responsabilità" come impegni creati piuttosto che come regole d’obbligo» sostengono «fermamente che sono il prodotto dell'agire umano e non una proprietà esterna della struttura sociale sulla quale gli individui non hanno alcun controllo. Ma c'è anche un senso in cui diventano elementi strutturali, in quanto vincolano e facilitano le azioni future» (Finch & Mason, 1993, p.170).

La reciprocità, ad esempio, ha un ruolo fondamentale nella negoziazione delle responsabilità familiari: vista la necessità di rinnovare costantemente la fiducia che gli altri ripongono in loro, un soggetto difficilmente rinuncia al proprio ruolo di donatore, così come a quello di beneficiario. Eppure la reciprocità riconosce anche la possibilità che il ruolo di donatore e beneficiario non siano simultanei come in una transazione economica: offrire un dono crea sì l’aspettativa di riceverne un altro, ma si accetta, e a volte ci si aspetta, che questo contro-dono venga fatto in un momento differito. È il caso di genitori e figli, nel quale i primi prendono in carico il lavoro dei cura dei secondi nei primi anni della loro vita aspettandosi che questi facciano altrettanto per loro negli ultimi anni. Il dovere morale di fornire assistenza e la necessità di essere assistiti sono legati culturalmente all’età, sono situati in specifiche fasi della vita e le transizioni correlate al corso della vita implicano cambiamenti del ruolo dell’individuo e delle aspettative nei suoi confronti all’interno della rete familiare. Come affermano Heike Drotbohm e Erdmute Alber,

«le transizioni nel corso della vita trasformano tanto il dovere quanto il diritto di fornire o ricevere cure. In questo senso, la cura è una pratica di una specifica fase della vita che non può essere analizzata da una prospettiva individuale, ma collega individui all'interno e attraverso le generazioni (Braungart e Braungart 1986). In secondo luogo, l'assistenza contribuisce alla costruzione delle fasi della vita in un doppio senso, vale a dire, l'aspettativa normativa di ricevere assistenza e il dovere (o abilità) di fornire assistenza » (Alber & Drotbohm, 2015, p.11). 

Tuttavia ci sembra importante sottolineare come la realtà si presenti sempre in maniera più sfumata, ad esempio gli anziani non sono quasi mai soggetti esclusivamente passivi e possono continuare a prendersi cura dei figli e/o dei nipoti, anche solo nell’accumulazione di beni destinati a diventare eredità, le aspettative nei confronti di un individuo si modificano ininterrottamente in relazione alla fase della vita attraversata. 



Una questione rilevante rispetto al lavoro di cura all’interno della famiglia è senza dubbio la trasgressione della reciprocità intergenerazionale: malgrado le persone tendano a considerare la cura familiare più affidabile e preferibile a quella offerta dallo Stato o dal settore privato, non sono così rare le occasioni in cui questa norma non viene rispettata. I figli adulti possono rifiutarsi di prendersi cura dei genitori anziani anche se questi si sono presi cura di loro quando erano bambini e adolescenti. Può accadere per la rottura dei rapporti o per egoismo, ma anche perché non sono in grado di farlo. Non tutti infatti sono in grado di fornire lavoro di cura non retribuito in base alle aspettative legate alla reciprocità: ostacoli come restrizioni legate al visto per i migranti o difficoltà economiche impediscono di occupare il ruolo adeguato per la propria fase della vita. 

Un esempio etnografico che mostra l’impossibilità di dare per scontata la reciprocità intergenerazionale è lo studio di Tabea Häberlein su Asséré, un villaggio situato nel nord del Togo (2015). In questo contesto infatti la cura degli anziani è legata alla disponibilità demografica dei membri più giovani della famiglia. Lo status sociale degli anziani, oltre che il loro stato di salute, dipende profondamente dalla prossimità di quanti più familiari possibili, visto che la distribuzione dei ruoli è ampia e variegata (Häberlein, 2015). Tuttavia, in particolare a causa della migrazione regionale verso il sud, la famiglia non vive spesso nelle vicinanze e se il membro designato nel sistema di classi d’età non riesce ad adempiere al proprio ruolo nel lavoro di cura nei confronti dell’anziano, il “contratto intergenerazionale” (Häberlein, 2015), teoricamente vincolante, può dissolversi. Malgrado i rapporti familiari siano normati dall’idea di reciprocità intergenerazionale e i componenti ci facciano affidamento, la cura durante l’invecchiamento non è mai garantita, come nel caso illustrato da Häberlein. Infatti 

«la cura è un'espressione molto reale del kin-work, che crea legami più stretti all'interno delle svariate relazioni intergenerazionali. Tutti i parenti biologici o sociali, tuttavia, devono riaffermare i loro legami familiari prendendosi cura l'uno dell'altro. Laddove questa connessione attraverso la cura fallisce, il processo individuale di dekinning può iniziare e gli obblighi relativi alle relazioni intergenerazionali possono ridursi o addirittura finire» (Häberlein, 2015, p.175). 

Un altro interessante caso etnografico è quello dei assistenti domestici ghanesi negli Stati Uniti studiati da Cati Coe (2017) nel quale le famiglie non riescono a prendersi cura di questi ultimi (a loro volta anziani) a causa della precaria condizione lavorativa e questo, insieme ad altri elementi storici e culturali, come l’idealizzazione del rispetto per gli anziani, costruisce la convinzione che in Ghana gli anziani ricevano una cura migliore, che a sua volta incoraggia una migrazione di ritorno dopo il pensionamento (differito per avere maggior capitale economico e sociale al ritorno). L’esperienza combinata a valori culturali norma precisi segmenti temporali della propria vita: in questo caso gli Stati Uniti sono visti come mero luogo di lavoro, mentre il Ghana diventa un luogo che i ghanesi emigrati negli Stati Uniti intendono come una comunità di pensionati (Coe, 2017). La nazionalizzazione di particolari periodi della vita (Stati Uniti - lavoro / Ghana - pensione) può portare, se non alla completa sospensione della costruzione di una rete sociale nel paese che viene vissuto come “provvisorio”, a una sua riduzione e dunque a un relativo isolamento. Inoltre la marginalizzazione (forzata) del ruolo della reciprocità intergenerazionale, in quanto la condizione di lavoratore migrante negli Stati Uniti rende le persone all’interno della rete familiare molto spesso indisponibili al lavoro di cura non retribuito, sia per mancanza di risorse economiche che di tempo libero.

Questi due casi etnografici ci aiutano a chiarire la condizione in cui, anche quando tutti facciano riferimento alle stesse norme e ci sia la volontà di seguirle, non può esserci la certezza di riuscire ad adempiere alla reciprocità intergenerazionale, in particolare in situazioni in cui le asimmetrie strutturali facciano sentire tutto il loro peso.

Jacopo Favi


Bibliografia


Bryceson, D. & Vuorela, U., (2002), The Transnational Family New European Frontiers and Global Networks, Berg, Oxford.

Coe, C., (2017), «Returning Home: The Retirement Strategies of Aging Ghanaian Care Workers», in Dossa P. & Coe C. (a cura di), Transnational Aging and Reconfigurations of Kin Work, Rutgers University Press, New Brunswick.

Drotbohm, H. & Alber, E., (2015), «Introduction», in Drotbohm H. & Alber E. (a cura di), Anthropological Perspectives on Care. Work, Kinship and the Life-Course, Palgrave MacMillan, New York.

Finch, J. & Mason, J., (1993), Negotiating family responsibilities, Routledge, New York.

Häberlein, T., (2015), «Intergenerational Entanglements - Insights into Perceptions of Care for the Elderly and Life-Courses in Northern Togo», in Drotbohm H. & Alber E. (a cura di), Anthropological Perspectives on Care. Work, Kinship and the Life-Course, Palgrave MacMillan, New York.


giovedì 20 maggio 2021

"Why the World needs Anthropologists": Book Review


Why the World needs Anthropologists. Edited by, Dan Podjed, Meta Gorup, Pavel Borecký and Carla Guerrón Montero. Routledge, 2021.



In recent decades a realization can be witnessed, within the discipline of anthropology and among anthropologists, about a more engaged role of anthropology and anthropologists in addressing the pressing social problems, and the structures that produce and maintain these problems. According to Bauer et al. (2006), a growing number of anthropologists are shifting their attention to social issues; however, writing about these issues in largely academic passion is not enough.  These authors calls for a “repositioning of applied anthropology, by suggesting that it serve as one of the frameworks for the discipline’s goal of pragmatic engagement” (Rylko-Bauer et al. 2006:178). According to Kedia and willigen (2005) applied anthropology always provides new theoretical and methodological contributions to the discipline of anthropology since its inception. The editors explain that applied anthropology is not a recent approach and that it is historically linked to the development of anthropology since its origins as a comparative science. In this line of debate a plethora of books and articles can be found online and otherwise, demonstrating the need and importance of both anthropology and anthropologists, with a focus on its applied dimension, in addressing and understanding issues and problems the contemporary world is facing, which makes applied anthropology an uncontested phenomena.  

Besides these books and articles, there is a growing interest among practicing and academic anthropologist and organizations, all over the world, in arranging seminars, conferences and symposiums, of which the current book is also a result, to create awareness about the use and importance of anthropology in a variety of fields in public arena. In this regard the society for Applied Anthropology (SfAA), a worldwide organization for applied anthropology, for example arranges annual meetings to provide an opportunity to scholars, practicing social scientists and students from a variety of disciplines and organizations to discussed their work, ideas, methods and practical solutions about the social issues (https://www.appliedanthro.org/about).Similarly, following the success of Why the World Need Anthropologists (WWNA) symposiums, 2020, the network continues to plan a fully-fledged event in Prague in 2021.The European association of social anthropology (EASA) also seeks to advance anthropology in Europe by organizing biennial conferences, editing its academic journal, its Newsletter and the two publication series. The Association further encourages and supports thematic networks.

Practicing and academic anthropologists in developing countries also organizes such seminars and conferences to emphasize the importance of the application of anthropological knowledge and methods in addressing various social problems. In Pakistan for instance, in a recent seminar organized by the department of anthropology and archaeology in collaboration with the UK-based Anthropology in Action Journal and two Sindh-based civil society organizations, practicing and academic anthropologists called for involving anthropologists in framing social policies in an attempt to rightly identify and root out social ills and empower people to solve their problems themselves. They called for creating and spreading awareness about the importance of anthropology among students, development workers, masses and journalists at both the governmental and non-governmental level so that society could be purged of all social evils (Dawn news, September 23rd, 2018). 

Above in view, the book Why the World Needs Anthropologists is a fresh and welcoming addition to the debate around the application of anthropological knowledge and methods in variety of fields, exploring and addressing various social problems on global and local scales.

The book basically is a collection of essays written by academic, practicing and applied anthropologists. It revolves around a central provocative question, ‘why does the world need anthropologists’?  While answering this question, each contributor in this book have provided concrete examples from their personal and professional life to emphasize the social value and practical application of anthropological knowledge and methods to solve the problems facing the world on a global scale. The book aims to reshape the discipline of anthropology with more focus on its applied dimension.



Rationale and Aim of the Book

The basic rationale of the book is based on some practical questions such as; how the detailed knowledge of cultural peculiarities and complexities relevant to the contemporary world and the problems facing humanity and the planet at present? And how about those problems we are about to face in the future? How can anthropology help to address major global issues such as climate and environmental disasters, migration and refugee crises, the rise of identity politics and concerns related to the fast-paced technological advancement? Why the world needs anthropologists? These are the questions explored in the present book by renowned anthropologists who have been using their anthropological knowledge and skills – many of them for several decades – in areas as varied as globalization, solutions to air pollution, social entrepreneurship, emerging technologies, sustainable energy, organizational change, design and international development.

In exploring the aforementioned questions, the book at a broader level aims to contribute to reshaping the discipline of anthropology as it has largely been known since its beginnings in the nineteenth century. Anthropology – with its focus on small, often far-off localities, and its unconventional research design – has commonly been perceived by the public as irrelevant to resolving ‘real’ problems, and many anthropologists have themselves been wary of practicing anthropology beyond their academic studies.

Thematic areas and chapters

The book is composed of an introduction and a conclusion by the editors Dan Podjed and Meta Gorup, and eleven chapters each addressing a particular domain of applied anthropology and the methodological and theoretical relevance of anthropology to be applied in understanding and solving real life problems. All the chapters are organized similarly. In addition to the theories, method and application, contributors have reflected on their personal anthropological endeavors and becoming professional anthropologists. Based on their personal experience and knowledge they have also provides five tips to be keep in mind while doing anthropological work.   The contributors convincingly demonstrate that how anthropological knowledge and methods are relevant to address the problems and issues humanity facing at a global level. They also described that how applied anthropology contributes theoretically and methodologically to the broader discipline of anthropology. 

The editors’ introduction covers a discussion on anthropology’s stereotypical image, the discipline’s contested history – particularly in relation to its applied aspects – and finally, calls for breaking the image of anthropology as an interesting but not a very useful endeavor. Instead, they call for an anthropology that moves beyond the description of academically interesting phenomena and towards informing change for the better.

 In discussing the discipline’s contested history editors elaborate that how the historical link between western colonialism and anthropology, especially applied anthropology, contributes to the split within the discipline as “pure” and “applied, as lesser” anthropology. They convincingly explains that though western colonialism used anthropology and anthropologists to sustain its domination over colonized people, however, both academic and applied anthropology have contributed to development of each other since its inception.  They argued that beside the use of applied anthropology the colonial powers, especially the Britain, have also established the departments of anthropology in academic institutions to train their administrators in anthropology and that the classical ethnographies were administrative reports. In this way applied anthropology paved the way for institutionalization of the discipline, while, at the same time, ‘academic anthropology’ with its theories and methodological approaches have clearly informed applied anthropological endeavors. It points to a continuous interlinking of ‘applied’ and ‘academic’ anthropology.

Similarly, to break the stereotypical conception of applied anthropology as the “evil twin” of academic anthropology, and anthropology in general as “interesting but obsolete endeavor”, the editors presents solid argument to change this public perception. They argued that a number of anthropological programs have a strong emphasis on the applied aspect of anthropological work and that much anthropology graduates have already embraced opportunities in various field outside academia. They also stressed that beside extended ethnographic field work new participatory and innovative approaches should be developed and used, such as the use of digital technologies and to work across disciplinary boundaries, to make anthropology well-suited to the requirement of changing world outside academia. In changing the public perception regarding the importance of anthropology in solving the real life problems, the editors argued that anthropologists should more openly and actively engage in developing ‘positive proposals’ and inform social change rather than only observe and comment on the society as ‘social critics’.

Finally the introductory chapter reflects on the accounts of Why the World Needs anthropologists Symposiums and of the contributors of this book in rebranding the discipline of anthropology. It suggests that anthropology has most certainly moved beyond its prevalent stereotypical public image, thus, in the process, continuously striving to make the world a better place.  



Chapter one and two discussed the relevance of anthropological theories and methods in understanding and solving some burning issues the world is facing today globally.  Thomas Hylland Eriksen, for example, emphasized that the world today needs anthropology more than ever. He argues that without anthropological approaches such as cultural relativism, ethnography, comparison and the contextual understanding, the pressing problems of an increasingly globalized, transnational and connected world characterized by extensive ambiguity, complexity and ambivalence, cannot be solved. Given this diverse socio-economic and cultural context of the world, the author explains that Cultural relativism is indispensable in anthropological attempts to understand societies in neutral terms. It is not an ethical principle, but a methodological tool. Similarly he explains that ethnographic field work enables the researcher to learn about aspects of local worlds that are inaccessible to researchers who use other methods. Because, Ethnography requires from the researcher to spent much time in the field for participant observation and to  build trust with the people they try to understand, who will then, consciously or not, reveal aspects of their lives that they would not speak about to a journalist or a social scientist with a questionnaire, for example. While discussing Comparison as an approach, the author argued that it enables the anthropologists to look for similarities and differences between social and cultural worlds that is how the can develop insights into the nature of society and human existence. Finally he discussed the need for anthropology with respect to some issues the world is facing today, such as, an enormous increase in contact between culturally different groups, shrinking of the world due satellite television, mobile phone networks and the internet, more rapid pace of cultural change than ever before, and an unprecedented interest in cultural identity.

Similarly, Lenora Bohren comprehensively discussed issues such as, refugee crises, cultural diversity and depletion of the environment. According to her many cultures with diverse values have come into contact and have increased the potential for misunderstanding and conflict, in this regard Anthropologists with their expertise in culture can play a very important role in addressing these problems. She further discussed in details some specific problems, such as, refugee crises, diversity issues, and environmental degradation, and the role she played, as an applied environmental anthropologist, in solving them successfully.

The next three chapters combine ‘theoretical scholarship and applied practice’, describing how anthropological knowledge and skills can be transferred and successfully used in governmental agencies, non-governmental organizations and industry. Joana Breidenbach, chapter three, described some basic anthropological premises, such as, multiperspectivity, suspending judgement, acknowledging the fluidity of life and the importance of various inner and outer dimensions, answering big questions by studying the very concrete phenomena – and how she has been doing so by listening to people’s stories. According to her, in an era characterized by exponential increase in complexity due to global interconnectedness and digitization, being able to grasp multiple perspectives simultaneously is a key capacity. It enables us to integrate perspectives from many different stakeholders and communicate across sectors in order to design and implement strategies. Similarly she argues that the researcher must enter the field with suspended judgment, avoiding any preoccupations and binary thinking. This requires the researcher to apply a culturally relativistic lens to open up himself to many sources of information and to a variety of different factors which shape the cultural logic of the context he is studying. Suspended judgement prevents the anthropologist from premature conclusions and easy interpretations. We need to be comfortable with not-knowing, with ambiguity and with ambivalence. Next she disused, why it is important to Coming closer to the fluidity of life? She argues that earlier generations of anthropologists tried to depict ‘a culture’ as a whole, writing ethnographies about the life of an entire population. Today, most anthropologists claim to grasp a holistic snapshot of a specific social setting, constellation or field. They question monolithic representations and truth claims, while instead giving voice to other often marginalized perspectives and stories.   



Professor Sarah Pink, chapter 4, Drawing on her expertise in emerging technologies, she envisions a new form of anthropology, breaking with how we have traditionally seen the discipline. She suggests that anthropological endeavors should be interdisciplinary, team-based, methodologically creative and, very importantly, interventional and future-oriented. She argues that the increase in automations and machine intelligence will bring more technological complexities to world in future.  She criticizes the current technological determinism, (solutionism and anticipatory risk mitigation strategies based on predictive scenarios and the assumptions that technological innovation will solve social and economic problem), in solving the socio-economic problem without proper understanding of the society. She proposed an interdisciplinary and interventional anthropology of our relationships with the emerging technologies that have been predicted to impact our lives, and which could be used to replace the technological determinism with an understanding of technology as creating possibilities. 

In chapter 5, Steffen Jöhncke tries to cover the split between academic and applied anthropology. He explains how applied and academic anthropology co-evolve in collaboration with partners outside academia.  He discussed his personal experience, as head of AnthroA nalysis, a center for applied anthropology, that by focusing on the problems outside the discipline it has become clear that in this work we do not so much ‘apply’ anthropology as a finished package of knowledge that is ‘put to use’. Rather, we explore and develop new formats and adaptations of anthropological university-based research through on-going exchanges with collaborative partners in potentially all sectors of society. He emphasizes that collaboration with partners and translating their organizational problems into anthropological question is a key element in applied anthropology.

The following two chapters cover a detailed discussion of anthropology of energy, which has become an important research topic in recent decades. It can be argued that energy has influenced almost every aspect of our daily life. In these chapters the authors argues that the social scientist and anthropologists should play their role in researching and shaping issues related energy, which was traditionally considered in the domain of engineering. In chapter six, for example, while discussing social dimension of energy, Professor Tanja Winther, reflects on her work at the intersection of anthropology and power engineering, which is traditionally considered being two radically different disciplines. However, she explains that engineering and anthropology provide complementary insights, and she has found it inspiring to combine them in her work on the social dimensions of energy. While working on certain energy projects in Africa with multidisciplinary teams, she emphasizes the anthropological approach as one that enables us to discover the variety and complexity in a non-normative way.  She also calls for anthropologists to inform policy-making and use their knowledge and skills to push for a more inclusive, sustainable and just system.

Sophie Bouly de Lesdain,chapter seven, explains, a significant challenge for the energy industry and policy makers is to find the levers of action that make acceptance of green energy technologies possible. In her opinion, anthropology’s conceptual methods and tools are perfectly suited to addressing such issues and informing the solutions to them: anthropologists can provide a deep understanding of the context as well as the motivations, adjustments made and problems faced by those adopting sustainable energy technologies.



The next three chapters discussed the application of anthropology, in a dynamic way and beyond the traditional conception of anthropology, in business domain by anthropologists as consultants and practitioners. 

In chapter eight, Rikke Ulk, founder of Antropologerne (The Anthropologists) an anthropological consultancy company, discussed her motivation for anthropological consulting. The main motivation for her was to be more vibrant and to move beyond the academic boundaries of anthropology she experienced during her studies. She discussed that how she reached out and brings anthropological values to more people and organizations than anthropologists solely based in academic work could. Since many years Antropologerne has collaborated with a number of public and private institutions, making sense of the organizations’ issues and bringing clients and users on board in the process of co-creating the solutions to them.

Jitske Kramer, founder of the consultancy firm HumanDimensions, in chapter nine, emphasizes the importance of understanding the increasingly diverse organizations and companies. He argues that for organizations to create sustainable cultural change within their structures, it is important to make sense of the ever changing corporate culture first. According to Kramer, anthropological theories and methods are more than relevant to undertake such endeavors. He suggests that by combining the insider and outsider perspectives it became easy to strengthen or change organizational cultures. Drawing on the anthropological appreciation of ‘our cultural variety’ Kramer has been especially committed to promoting more inclusive corporate cultures.

Anna Kirah, a design anthropologist and psychologist, in chapter ten, emphasizes the need for anthropologists to not only describe cultures but to engage in facilitating change. In this process, she argues, the most important premise is that products and services should not be designed people; instead, they should be designed them. Moreover, anthropologists as practitioners have a ‘moral and ethical responsibility’ to address the problems humanity faces, especially in times of accelerated change and the resulting challenges linked to globalization, sustainability, healthcare and technology.

The final chapter, Riall W. Nolan, discussed his important contributions to the fields of international development and higher education as a practitioner, a researcher and an educator.  He suggests that anthropological thinking is essential to understand the complexities of the world we live in. In chapter eleven, he criticizes the existing understanding of real world through numbers, and emphasized that to understand the human diversity and complexity we need to undertake contextual analysis by using anthropological knowledge methods and thinking. Nolan also suggests that it is not enough that only anthropologists should embraced anthropological thinking but the society should embraced it. Thus while the world perhaps does not need more anthropologists, we definitely ‘need more anthropological thinking’.

Yasir Khan

References 

Kedia, S., & Van Willigen, J. (2005). Applied anthropology: Context for domains of application. Applied anthropology: Domains of application, 1-32.

Rylko‐Bauer, B., Singer, M., & Willigen, J. V. (2006). Reclaiming applied anthropology: Its past, present, and future. American anthropologist, 108(1), 178-190.

https://www.appliedanthro.org/about

https://www.applied-anthropology.com/

https://www.easaonline.org/conferences/


martedì 11 maggio 2021

‘’A half inch of red dust that seems to cover everything’’. L’archivio (e l’altro archivio) in Guinea Conakry: fra memoria collettiva e dolore privato

 

L’antropologo impegnato in un lavoro d’archivio sulla storia della violenza politica in Guinea deve prepararsi a fronteggiare tre importanti sfide: il lavoro d’archivio, la storia della violenza politica, la Guinea.

Le scienze sociali riflettono criticamente sull’istituzione stessa dell’archivio. La critica postmodernista ha dimostrato come l’archiviabilità selettiva dei documenti, e la loro significativa esclusione, sia frutto di processi articolati ai quali più fattori concorrono. Le mancanze in archivio sono sempre significative: ‘’This paucity can be a consequence of various factors: underfunding, opaque or unsystematic modes of governance, deliberate practices of censorship and destruction, or the fear of leaving traces that could be used as case material in future claims or litigation’ (Levin & Pforr, 1962, 16). L’archivio è anzitutto un prodotto dello stato in un’epoca storica, necessita di decostruzione: Achille Mbembe va oltre: 

‘’the archive is primarily the product of a judgement, the result of the exercise of a specific power and authority, which involves placing certain documents in an archive at the same time as others are discarded. (…) the granting of a privileged status to certain written documents, and the refusal of that same status to others, thereby judged 'unarchivable'‘’ (Mbembe, 2002, 20).

Risultato di precise interazioni fra precisi soggetti, l’archivio non è una neutra fonte di verità: privo d’univocità, coerenza, completezza, oggettività, ordine, è un prodotto della storia più che una sua sorgente (Tough, 2009, 187-188. Della Misericordia, 2009, 155-168). E di quella storia mostra le cicatrici, più spesso le ferite aperte.

 

Fig. 1 - Moussa Soumah tiene fra le mani il Livre blanc de l'opération Mar Verde, 22 novembre 1970, a Conakry. © Carole Valade/RFI ( https://www.rfi.fr/fr/afrique/20201122-guin%C3%A9e-il-y-a-cinquante-ans-mar-verde-l-attaque-portugaise-sur-conakry )

Se ovunque nel mondo l’archivio parla, e parlando ‘’mente’’, in Africa Occidentale questa fonte è, se possibile, ancor più insidiosa per l’antropologo. Pur nella profonda eterogeneità della realtà continentale nella sua costante evoluzione, simili problemi logistici complicano la ricerca in molti archivi post-coloniali: malfunzionamento di sistemi d’archiviazione, assente sistematicità, diffusa inconsapevolezza sulla sua importanza, legislazione confusa o datata, scarsi fondi in stati semifalliti, classificazioni datate, personale non formato, infrastrutture inadeguate, scarsa sicurezza, smarrimenti e irreperibilità per cause non fraudolente (Nengomasha, 2013, 2-4. Mnjama, 2005, 458-459). Ma a questo si aggiungono reticenze e sparizioni intenzionali frutto di scelte politiche di regimi talvolta dissoltisi, ma con profondi legami con l’attuale contesto neo-democratico: consapevoli occultamenti tesi a nascondere collusioni e responsabilità criminali (Daly, 2017, 312-316) incontrano contraffazioni e oblii legati ad esigenze di propaganda o repressione (Tough, 2009, 190-192).

Gli archivi in Guinea Conakry partecipano a questi problemi, e presentano in più sfide ulteriori legate al contesto storico-politico. Primo paese dell’impero a dichiararsi unilateralmente indipenende in conflitto con la Francia, nel 1958 è entrato in un regime autocratico comunista dal quale non sarebbe uscito che alla morte del suo leader Sekou Touré, 1984. I regimi militari che si sono avvicendati fino al 2010 in uno dei paesi più poveri del mondo, e quello attuale di ispirazione democratica, hanno continuato una storia di sanguinosa repressione e un profondo conflitto sociale cha non smette di lacerare comunità e famiglie.

 

Fig. 2 - Le impiccagioni del 25 gennaio 1971 a Conakry, da una foto d'epoca. KHP ( https://savoirs.rfi.fr/en/comprendre-enrichir/histoire/45-le-complot-de-la-cinquieme-colonne )

La ricostruzione di questa memoria attraverso l’archivio in passato per all’antropologo è stata impossibile, ma ancora oggi è difficile. Una pregiudiziale ostilità politica circonda ancora la ricerca, figlia di un regime ossessionato dal complotto come dall’antioccidentalismo: nel 1981 Martin Klein affermava: ‘’To the best of my knowledge I am only the second Western scholar to be admitted a titre privée since Guinea began opening up’’ (Klein, 334.), dove il titolo privato in corsivo allude a canali ben poco formalizzati. Similmente per la ricerca di campo: ‘’My predecessor had difficulty because she wanted to do field research. This meant that she had to be accompanied and it meant that surveillance was difficult’’. Gli archivi nella capitale, per esigenze di regime, erano comunque relativamente ben conservati. Pochi anni dopo, nel 1987, nonostante la morte del dittatore, Martin Ford descrive le stesse difficoltà burocratiche e un clima di sospetto:

 ‘’In the past, Guinee has been noted for restrictions regarding the presence of Western researchers. The atmosphere has improved but, even now, the paperwork that must be completed to get clearance is quite strictly, almost forbiddingly, stated. (…) the people administering these forms (…) do work within rather restrictive guidelines’’ (Ford, 382).

Gli anni ‘90 e ‘2000 sono quelli dell’alleggerimento: per David Conrad: ‘’There has been an effective movement afoot in the Republic of Guinea to improve the climate of study and research for local and foreign’’ (Conrad, 1993, 369). Ma sono anche quelli di distruzioni fisiche e involuzioni qualitative dei servizi per sommovimenti politici, incendi, chiusure, licenziamenti, riduzione di fondi imposti dal PAS del FMI (Counsel, 2009, 440). La ricerca di archivio è tuttora appesantita da procedure e difficoltà logistiche, come Romain Tiquet e Martin Mourre, ancora nel 2018, spiegano: ‘’Numerosi autori hanno tentato di avere accesso, senza successo’’ (RFI e FIDH, 2018, 7).

 

Fig. 3 - Celle di Camp Boiro, dove oppositori politici erano imprigionati sotto il regime di Sékou Touré (foto del 1986) AFP / DANIEL JANIN ( https://www.rfi.fr/fr/afrique/20210329-guin%C3%A9e-mort-d-abbas-bah-figure-de-l-exigence-de-justice-pour-les-victimes-du-camp-boiro )

Ma un secondo ordine di problemi specificamente guineano attende l’antropologo. Gli archivi, al netto dell’affidabilità, sono luoghi in cui si deposita la memoria collettiva di una nazione e il popolo guineano, ad oggi, non ne ha una perché privo di verità storica e giustizia. Le lacerazioni sociali di decenni di repressione non hanno provocato solo gli stessi occultamenti presenti in altri regimi (RFI e FIDH, 2018, 30-31. Straussberger, 2015, 303). Ciò che si è rotto in profondità è la fiducia dei cittadini verso lo stato e quella fra loro stessi: le memorie sono conservate privatamente a livello famigliare, in una chiusura gelosa, orgogliosa, quasi astiosa. La mancata condivisione dei documenti è un atto di resistenza politica, una rivendicazione del diritto al dolore e alla memoria dei propri cari vittime del regime all’epoca dei massacri: nessuno in Guinea deposita documenti presso istituzioni pubbliche, delle quali diffida pregiudizialmente. Sfiducia e diffidenza sono profonde verso stranieri e connazionali (RFI e FIDH, 2018, 8), dove memoria condivisa vuol dire contraffatta da un potere ostile.

L’antropologo, in un contesto così complesso, deve ricorrere ad altri strumenti. Se la digitalizzazione degli archivi - avanzata in alcuni paesi africani - potrebbe essere una soluzione, è chiaro che a fronte di manomissioni pubbliche e reticenze private la tecnologizzazione rischia d’offrire ancor più mezzi di contraffazione (Daly, 2017, 319). Quanto agli archivi coloniali in Francia, racchiudono una sterminata varietà di fonti la cui conoscenza è imprescindibile per la longue durée delle dinamiche conflittuali. È noto, tuttavia, che questo presenta problematiche d’altra natura: gli archivi coloniali erano organici ad un contesto di quasi inesistenza di troppi soggetti subalterni, invisibili perché oggetto di interesse limitato da parte dell’archivista (Tough, 2009, 188-189. Cunha & Rodgers, 2006, 4-6. Namhila, 2016, 115-120).

Soluzioni più promettenti sono quelle che tendono a cercare il materiale documentale laddove questo ha potuto sottrarsi a manomissioni. Anzitutto, archivi locali. Uno sforzo recente in Guinea è stato tentato da John Straussberger, che si è dedicato agli archivi nei capoluoghi di regioni interne, lontani dalla capitale: ricerca compiuta con rilevanti difficoltà, ma anche con sorprendenti risultati in archivi consistenti in ‘’one dark, windowless room, in which I found documents stacked in six to eight foot piles and caked in a half inch of the red dust that seems to cover everything (…)’’ (Straussberger, 2015, 302).


Fig. 4 - Il sinistro Camp Boiro sotto Sékou Touré | Crédit : Campboiro.org ( https://www.27avril.com/blog/actualites/ailleurs-en-afrique/guinee-camp-boiro-45-ans-apres-douleureux-souvenirs-familles-victimes )

La via maestra, e più complicata, è tuttavia quella di uscire dall’archivio istituzionale e integrarlo con ‘’l’altro archivio’’: sterminato, sussurrante, diffuso, chiuso in case, cassetti, bauli. La memoria viene tramandata nelle famiglie per mezzo di lettere, diari, fotografie, inutilizzabili nastri registrati, messaggi di persone scomparse nelle carceri o fuggite. Mentre il figlio o nipote di una vittima narra la dolorosa vicenda che gli è stata tramandata, passa lentamente in rassegna una alla volta le scolorite foto dei parenti, o legge ad alta voce alcune righe di lettere dai bordi friabili che tiene sulle ginocchia mentre parla: necessari segnalibri di una storia che senza non potrebbe essere raccontata. L’antropologo deve cercare tale fonte ibrida: non orale, perché supportata da un’ossatura documentale stabile; non scritta, perché muta se orfana della sua voce narrante. Fonte meticcia ed asistematica per natura, che si dissolve qualora si cerchi di categorizzarla rigidamente, essa mostra i pregi di entrambe le fonti da cui deriva. A differenza delle fonti orali, è stabile perché puntellata nei suoi punti deboli e meno sottoposta a manipolazioni; a differenza di quelle scritte, respira del contributo diretto del narratore, che sa di compiere un atto politico. Questo baricentro narrativo semi-stabile ringiovanisce la storia e permette un suo perpetuo rinnovo pur nella conservazione, conferendo al tempo la funzione di fertilizzante e moltiplicatore di significati.

La sfida è immane, il risultato comunque non garantito. “La vita in Guinea durante il tempo di Sékou Touré era orribile. (…) In questo tipo di situazione, il comportamento e la morale umana decadono. (…) Ci sono persone che hanno venduto lo zio o il padre per un pacchetto di sigarette. (...) Queste persone non vogliono testimoniare" (RFI e FIDH, 2018, 8). Lo scrittore Tierno Monenembo allude al fatto che spesso non si ha una memoria collettiva perché molti non sono ancora riusciti a riconciliarsi con quella privata, una polvere ben più pesante da rimuovere di quella rossa della savana.

La sfida per l’antropologo è conquistare la fiducia della persona che accetta di parlare, barattando l’informazione etnografica con un aiuto nel suo percorso individuale: va oltre l’archivio, oltre la storia, oltre la politica, e forse anche oltre l’antropologia.

 

Bibliografia

 

Conrad, D.C. (1993) ''Archival Research in Guinea-Conakry'', History in Africa, Cambridge University Press, Vol. 20, pp. 369-378.

Counsel G. (2009) ''Archival and Research Resources in Conakry, Guinea'', History in Africa, Cambridge University Press, Vol. 36, pp. 439-445.

Cunha O.M.G. & Rodgers, D. A. (2006). ''Imperfect tense: an ethnography of the archive''. Mana, 1(se).

Daly S. Fury Childs (2017), ''Archival research in Africa'', African Affairs, Volume 116, Issue 463, April 2017, pp. 311–320.

Della Misericordia, M. (2009) ''Mappe di Carte. Le Scritture e gli Archivi delle Comunità Rurali della Montagna Lombarda nel Basso Medioevo'', in A. Bartoli Langeli, A. Giorgi, S. Moscadelli (2009), Archivi e comunità tra medioevo ed età moderna, Università degli Studi di Trento.

Ford, M. (1987) ''A Note on the National Archives of Guinée in Conakry'', History in Africa, Vol. 14, Cambridge University Press, pp. 381-382

Klein, M. A. (1981) ''Report on Archives of the Popular and Revolutionary Republic of Guinea in Conakry'', History in Africa, Vol. 8, Cambridge University Press.

Levin, M. & Pforr, B. (1962) ''Ethnographic and Anthropological Materials as Historical Sources''. Arctic Anthropology, 1(1), 51-57. Retrieved April 17, 2021.

Mbembe, A. (2002) ''The Power of the Archive and its Limits''. In: Hamilton C., Harris V., Taylor J., Pickover M., Reid G., Saleh R. (eds) Refiguring the Archive. Springer, Dordrecht.

Mnjama, N. (2005) "Archival landscape in Eastern and Southern Africa", Library Management, Vol. 26 No. 8/9.

Namhila, E.N. (2016) ''Content and use of colonial archives: an under-researched issue''. Arch Sci 16, 111–123.

Nengomasha, C. T. (2013), ''The past, present and future of records and archives management in sub-Saharan Africa'', Journal of the South African Society of Archivists, Vol. 46.

RFI e FIDH (2018), ''Mémoire Collective, Une Histoire Plurielle des Violences Politiques en Guinée'', https://www.memoire-collective-guinee.org

Straussberger, J. (2015) ''Fractures and Fragments: Finding Postcolonial Histories of Guinea in Local Archives'', History in Africa, 43, p. 299-307.

Tough, A.G. (2009) ''Archives in sub-Saharan Africa half a century after independence''. Arch Sci 9, 187–201.

Storie di Vita, Vita di Storie. La Centralità Antropologica della Narrazione


Per il seminario del 10 marzo 2021 Raul Zecca Castel, assegnista di ricerca presso il dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ha sviluppato una riflessione metodologica sulla rilevanza delle storie di vita in antropologia. A partire dalla pubblicazione del suo libro Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi (2020) ha tracciato un filo conduttore tra antropologia e storia, sottolineando l’importanza politica ed epistemologica di raccontare storie “minori”, perse nel flusso della storia dei “grandi”, e al contempo di ancorarle a un contesto più ampio, stratificato e complesso. 

Qui non intendo tuttavia dedicarmi al rapporto che intercorre tra antropologia e storia, ma piuttosto a quello tra antropologia e letteratura. Durante il seminario mi sono infatti domandata se, a prescindere dal carattere euristico che le storie di vita possono assumere per la ricerca antropologica, la loro “fortuna” non derivi anche dal semplice fatto che ci piace ascoltare storie e ci piace raccontarle. A partire da questo piccolo spunto, intendo analizzare brevemente la centralità del dispositivo narrativo nella regolazione ed espressione della vita umana (Damasio, 1999, 2010; Gottschall, 2012) e conseguentemente la sua importanza anche per la pratica antropologica (Sobrero, 2009). 


Fig. 1 - Un narratore di storie dei !Kung San, 1947. Immagine tratta dal libro di J. Gottschall (2012), L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani. Tr. it. Bollati Boringhieri, 2014.

Alberto Sobrero (2009), in un libro dedicato al rapporto tra antropologia e letteratura, ha considerato la pratica narrativa come uno dei più essenziali dispositivi conoscitivi dell’essere umano, il mezzo attraverso il quale organizziamo la nostra esperienza e proviamo a darle un significato. In stretta relazione con queste considerazioni, lo studioso di letteratura Jonathan Gottschall (2012) ha definito l’essere umano come il primate che possiede il tratto distintivo di essere dedito alla fiction, alla narrazione. Dai sogni diurni e notturni, ai giochi dei bambini o alle opere letterarie, la narrazione funzionerebbe come meccanismo volto a dare un ordine cognitivo e simbolico al mondo al fine di “addomesticarlo” e renderlo più familiare. La pratica narrativa avrebbe quindi un ruolo preponderante nel definire ciò che ci rende umani, addirittura a partire dagli albori del nostro sviluppo coscienziale, secondo quanto suggerito dal neuroscienziato Antonio R. Damasio (1994, 1999) o dal famoso esperimento condotto dagli psicologi Heider e Simmel (1944). 


Fig. 2 - In un breve filmato, gli scienziati hanno mostrato ai soggetti della ricerca delle figure geometriche intente a spostarsi nello spazio. I movimenti delle figure sono stati studiati per suscitare una certa risposta: facendo leva sulla fame di schemi e di organizzazione del materiale percettivo in forma di storie della mente umana, gli sperimentatori hanno indotto chi guardava il filmato ad assistere a un racconto dotato di un’archetipica forma narrativa, di un eroe, un antieroe e un personaggio da salvare. 

La fame di storie del nostro cervello sarebbe poi rintracciabile nelle più diverse discipline, dalla diffusione del genere cronachistico nel giornalismo (Darnton, 1975) fino alla struttura narrativa dei processi giudiziari (Bruner, 1986). Come scrive Alberto Sobrero (2009): 

"alla radice troviamo l’attitudine al NARRARE (magari scritto con tutti i caratteri maiuscoli) e poi, nel cespuglio che ne origina, i diversi generi della narrazione: la narrazione mitica, religiosa, scientifica […] ognuna intrecciata alle altre, eppure ognuna con i suoi caratteri specifici, ognuna in grado di narrare un aspetto del nostro mondo. Ognuna (e ogni disciplina nel suo particolare) obbligata a fare i conti con la letteratura, come dispositivo generale della vita e della conoscenza" (p. 16). 

Tra le scienze sociali, l’antropologia è stata particolarmente incline a occuparsi del rapporto che intercorre tra scienza e narrazione, non fosse altro perché “gli antropologi per mestiere devono raccontare storie di vita di paesi lontani, devono tornare a raccontare in un mondo che per un certo periodo hanno disabitato ciò che loro credono di aver capito di quel che altri hanno pensato di capire” (Sobrero 2009, p. 11). Nello sforzo di traduzione, l’antropologia ha conservato una natura ibrida e intermedia, tra la necessità di farsi documentazione scientifica e la componente per forza di cose soggettiva, evocativa e “romanzata” della sua forma espositiva. Come ha sottolineato Clifford Geertz (1980), tra i primi a indagare le strategie retoriche messe in atto dagli antropologi nei loro resoconti per legittimare la propria autorità di autori: “C’è qualcosa di stravagante nel costruire dei testi apparentemente scientifici partendo da esperienze ampiamente biografiche, il che è dopo tutto, ciò che gli etnografi fanno” (p.17). 

Al fine di legittimare e autorizzare il loro “essere stati là”, gli etnografi impiegherebbero una serie di tecniche letterali e autoriali che, secondo Geertz, hanno da essere indagate per la loro rilevanza epistemologica. La stessa filiazione dell’antropologia dalla letteratura meriterebbe del resto, sempre seguendo Geertz, di avere un posto maggiore nelle riflessioni metodologiche, troppo occupate a rincorrere le scienze naturali verso una presunta oggettività e neutralità osservativa. La scelta di “lodare” solo uno dei progenitori – la scienza a scapito della letteratura – ricorderebbe così “il mulo nord-africano che parla sempre del fratello di sua madre, il cavallo, ma mai di suo padre, l’asino” (p. 16).  I suggerimenti di Geertz, non senza divergenze di vedute, sono in parte confluiti nel celebre “Scrivere le culture” (1986), un testo collettaneo volto a indagare le modalità attraverso le quali “i procedimenti letterari – metafora, linguaggio figurato, racconto – influenzano le forme in cui i fenomeni culturali vengono registrati” (p. 26). 


Fig. 3 - Immagine tratta da D. Pennac (2007), Écrire, Éditions Hoëbeke, Paris. 

L’uso di procedimenti stilistici mette in risalto le somiglianze e le ascendenze tra letteratura e antropologia, rilevando alcuni degli aspetti di un rapporto che non deve tuttavia limitarsi a essere, come evidenzia Sobrero,

"una questione di strategie retoriche, di prestiti e filiazioni reciproche, ma qualcosa di più e di diverso. C’è del paradossale nell’autobiografia, nel voler raccontare la propria vita, ma non per questo bisogna pensare che sia meno paradossale raccontare la vita degli altri, specie quando sono gli altri a raccontarci la loro: quel che si ottiene è solo un doppio evidente paradosso" (Sobrero 2009, p. 12). 

Tra gli autori che hanno deciso di indagare con maggiore profondità questo “doppio paradosso”, Sobrero cita l’antropologo e romanziere Michel Leiris (1934) e in particolare il suo resoconto della spedizione Dakar-Gibuti, guidata dall’antropologo Marcel Griaule e svoltasi tra il 1931 e il 1933. Si tratta di un testo non a caso particolarmente ibrido, “une journal à double entrée” (p. 9) che è un po’ romanzo, un po’ un’etnografia, un po’ un’autoetnografia. Secondo l’antropologo James Clifford (1988) gli scritti di Leiris:

"non pretendono di conoscere un distanziato “esotico”, di capirne i segreti, di descriverne oggettivamente paesaggi, consuetudini, linguaggi. Ovunque vadano, registrano incontri complessi. […] Il lavoro sul campo di Leiris in un’Africa fantasma lo risospinge in una incessante etnografia dell’io, non un’autobiografia, ma un atto di scrittura della propria esistenza in un presente di memorie, sogni, politica, vita quotidiana" (p. 27).

Il lavoro di Leiris aiuta a riflettere sulle complessità metodologiche di una scienza tesa a pervenire all’oggettività tramite un massimo grado di soggettività. Una soggettività che va dunque posta al centro della metodologia tramite un lavoro di autoriflessione e nello sviluppo di in una costruzione narrativa volta a rilevare i complessi giochi di specchio dell’esperienza di campo. Tali considerazioni non vogliono suggerire una deriva troppo narcisistica, la famosa “malattia del diario” diagnostica già da Geertz (1980, p. 98), ma ricordare che la pratica antropologica possiede una natura intrinsecamente dialogica, si sviluppa in un lavoro processuale di costanti rinegoziazioni e posizionamenti sul campo. Come ha fatto presente durante il seminario lo stesso Raul Zecca Castel, le storie di vita si costruiscono nello spazio di incontro tra differenti biografie.

Riconoscere il carattere evocativo, letterario e congiuntivo (Bruner, 1986) dei resoconti antropologici non vuol dire per questo dimenticarsi dell’esigenza di rappresentare, del bisogno di “cristallizzare” un’esperienza in un’opera scientifica, di farla dialogare con altre opere, e di ancorarla quindi a contesti di storie e di vite più ampi e stratificati. Riconoscere che il mondo è mondo narrato, che conoscere ed elaborare è narrare e che abbiamo una particolare propensione per le storie e per la loro fabbricazione, aiuta a individuare la centralità della pratica narrativa e del racconto in antropologia. Da un punto di vista metodologico e interpretativo significa quindi

"fare i conti con i propri limiti epistemologici e con le proprie condizioni di conoscibilità, limiti e condizioni che devono essere esaminati criticamente e criticamente valutati allorché si ha la pretesa di parlare degli altri. “Altri” di cui bisognerà pur parlare (pena il silenzio). Il come ne parleremo dipenderà però dalla maniera in cui avremo fatto i conti tanto con le pretese di “oggettività” del nostro sapere quanto con le tendenze “narcisistiche” della nostra soggettività di etnografi" (Fabietti, 1999, p. 109).


Bibliografia 

Bruner, J. (1986), La mente a più dimensioni. Tr. it. Laterza, Roma-Bari 2003. 

Bruner, J. (2002), La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita. Tr. it. Laterza, Roma-Bari 2002. 

Clifford, J. (1988), I frutti puri impazziscono. Etnografia e arte nel secolo XX. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

Clifford, J., Marcus, G., E. (1986) (a cura di), Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia. Tr. it. Meltemi, Roma 1997.

Damasio, A. R. (1999), Emozione e coscienza. Tr. it. Adelphi, Milano 2000. 

Damasio, A. R. (2010), Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente. Tr. it. Adelphi, Milano, 2012.

Darnton, R. (1975), “Writing News and Telling Stories”.  In Dedalus, fasc. 2, pp. 175-194.

Fabietti, U. (1999), Antropologia culturale: l’esperienza e l’interpretazione. Laterza, Roma-Bari.

Geertz, C. (1988), Opere e vite. L’antropologo come autore. Tr. it. il Mulino, Bologna 1988.

Gottschall, J. (2012), L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2014. 

Heider, F., Simmel, M. (1944), “An Experimental Study of Apparent Behavior”, in American Journal of Psychology, 57, 1994, pp. 243-259.

Leiris, M. (1934), L’Afrique fantôme, Gallimard Parigi 1981.

Sobrero, A. M. (2009), Il cristallo e la fiamma. Antropologia fra scienza e letteratura. Carocci, Roma.

Zecca Castel, R. (2020), Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi. Arcoiris, Salerno.